Confedilizia ha elaborato i dati resi noti dall’Agenzia delle Entrate sullo stato del patrimonio immobiliare in Italia.

Nel 2021, il numero di “unità collabenti“, cioè delle costruzioni ridotte a ruderi per l’accentuato livello di degrado, con categoria catastale F2, è cresciuto del 3,3% rispetto al 2020; ma il dato più significativo è quello che mette a confronto il periodo pre e post Imu: rispetto al 2011, gli immobili ridotti alla condizione di ruderi sono più che raddoppiati, passando da 278.121 a 594.094 (+ 113,61%).

Si tratta di immobili, appartenenti per il 90% a persone fisiche, che pervengono a condizioni di fatiscenza per il solo trascorrere del tempo o, in molti casi, in conseguenza di atti concreti dei proprietari (ad esempio, la rimozione del tetto) finalizzati ad evitare almeno il pagamento dell’IMU, sempre più gravosa in questo periodo di serie difficoltà per le famiglie. Va infatti ricordato che sono soggetti alla patrimoniale immobiliare persino i fabbricati definiti “inagibili o inabitabili”, ma non ancora considerati “ruderi”.

Si tratta di costruzioni diroccate e ruderi, cioè abitazioni ed edifici caratterizzati da un notevole livello di degrado che ne determina l’assenza di autonomia funzionale e l’incapacità reddituale. Significa dunque che non possono essere utilizzati dai proprietari, né affittati a soggetti terzi.

Viste quindi le prevedibili conseguenze in termini di degrado delle aree su cui insistono questi ruderi, che sono peraltro nella maggior parte, ricadenti nei piccoli centri e nei borghi più caratteristici d’Italia, oggetto di spopolamento, si pone il problema di quali soluzioni proporre per permettere ai tanti proprietari di seconde case, che spesso si trovano a ereditare immobili vecchi senza riuscire a metterli a profitto, di investire nella loro riqualificazione.

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