Le riflessioni del Segretario Generale APRODUC partono dall’analisi dei problemi esposti dai tecnici e uffici comunali durante la tavola rotonda, che hanno riguardato in modo quasi esclusivo la gestione comunale dei patrimoni delle comunità di abitanti originarie, di fatto confusi con i beni di patrimonio dell’ente comune. Viene affrontato quindi storicamente, il tema dell’assenza della comunità di abitanti e della mancanza degli enti di gestione dei beni delle comunità specie nel Sud Italia.

Le comunità originarie erano comunità chiuse, a base gentilizia o di tipo familiare, che utilizzavano i beni appresi per laudo in forma diretta, promiscua e solidale sulla base degli antichi statuti e regole consuetudinarie. Le comunità del Sud erano invece aperte agli usi di tutti i residenti che coltivavano le terre agricole e vivevano con i prodotti del bosco e del pascolo secondo gli usi consuetudinari. Mancavano strutture organizzate di gestione, e con le leggi liquidatrici, i beni della comunità originaria, furono affidati alla cura dell’ente comune che doveva amministrarli in nome e per conto della comunità.

La cattiva gestione comunale e soprattutto la mancanza di programmi di gestione colturale ha portato alle occupazioni arbitrarie delle terre più fertili, alle edificazioni fuori piano e alla distruzione dei grandi patrimoni agro-silvopastorali. La tesi sostenuta nel parere del Segretario generale, è quella che per fermare il degrado e l’abbandono delle aree rurali sia necessario che le comunità originarie del Sud si riapproprino degli antichi patrimoni agrosilvopastorali e li gestiscano nell’interesse della collettività. Per far questo è necessario che anche nelle comunità meridionali si formino gli enti di gestione che, in base ai principi della legge 168/2017, agiscono come associazioni di diritto privato con autonomia statutaria. La gestione privatistica di questi beni, che tuttavia mantengono il loro speciale regime pubblicistico, dovrebbe facilitare la ripresa e la rinascita delle antiche comunità, operazione a cui devono partecipare in modo diretto tutti i soggetti interessati, in specie gli imprenditori agricoli ed operatori del settore.

Le comunità di abitanti devono riprendere il loro ruolo collegando gli antichi diritti civici alle moderne tecniche e metodologie. Se i diritti civici della comunità originaria sono imprescrittibili ed inusucapibili, essi possono sempre essere rivendicati e soprattutto essere esercitati anche in forme e modalità diverse da quelle tradizionali adattandosi così alle esigenze della società attuale. Le utilità che si devono poter trarre dai patrimoni delle collettività non sono soltanto quelle tradizionali, ma tutte quelle necessarie alla vita dell’uomo di oggi, il diritto al lavoro, alla cultura, alla buona salute, alla conservazione dell’ambiente.

La conclusione è che soprattutto in questo momento di particolare disagio sociale, i beni ed i diritti della comunità originaria possono costituire una alternativa valida per utilizzi che vengano incontro e soddisfino nel modo più pieno e concreto le necessità esistenziali delle categorie più disagiate e al contempo una gestione attenta e razionale dei patrimoni delle comunità, favorendo l’imprenditoria di settore e il diritto al lavoro stabile e dignitoso, come pure le attività di incentivo alla ripresa economica.

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